I MILLE PERCHÉ - CHIMICA E FISICA - I FENOMENI DELLA CHIMICA E DELLA FISICA

PERCHÉ NEL «TERMOS» L'ACQUA SI MANTIENE CALDA?

Il calore si può propagare da un corpo all'altro o da una zona all'altra di uno stesso corpo con tre differenti processi, a seconda della natura del corpo. Nei solidi si ha una propagazione per «conduzione» che consiste in un graduale passaggio del calore dalla zona riscaldata a quella contigua non riscaldata, da questa alla successiva e così via.
Nei solidi la propagazione dipende molto dalla natura del corpo: solo nei buoni conduttori, come i metalli, il calore si propaga rapidamente, mentre se riscaldiamo una bacchetta di vetro ad una estremità, se la bacchetta è abbastanza lunga, l'altra estremità non si riscalda.
Attraverso i corpi fluidi, liquidi o gassosi, si ha una propagazione per «convezione», dal basso verso l'alto: le molecole del corpo riscaldate diventano meno dense dilatandosi e salgono perciò verso l'alto sostituite da quelle fredde che dall'alto discendono in basso.
Parlando del termosifone abbiamo visto come questo fenomeno sia sfruttato per il riscaldamento delle case: l'acqua riscaldata in una caldaia sale per convezione nei radiatori a cui cede calore; quindi divenuta più densa e più fredda ritorna nella caldaia per essere nuovamente riscaldata... e così via. Nella propagazione per convezione il calore viene trasportato verso l'alto dalle particelle di fluido in movimento.
L'uomo ha escogitato vari mezzi per impedire la dispersione del calore, ostacolando questi movimenti di particelle. Per evitare, ad esempio, che il proprio corpo perda calore, che lo strato d'aria che riveste il proprio corpo comunichi per convezione il suo calore agli strati d'aria superiori più freddi, li isola interponendo tra loro abiti di lana o pellicce.
Un mezzo efficace e radicale per evitare la dispersione del calore consiste nel circondare il corpo caldo con uno spazio vuoto.
Ciò avviene nei thermos.
I thermos sono recipienti di vetro a doppia parete nella cui intercapedine è praticato un vuoto molto spinto. In queste bottiglie un corpo caldo (o freddo) conserva a lungo la propria temperatura. Un corpo caldo possiede naturalmente una energia radiante e può diffondere il proprio calore intorno a sé per «irraggiamento». I raggi di calore però possono superare anche il vuoto: la prova di ciò l'abbiamo nell'esempio più grande di irraggiamento, quello del Sole nei confronti della Terra. Quindi perché l'acqua calda (o fredda) nel thermos mantiene a lungo la stessa temperatura?
Nel thermos la dispersione del calore per «conduzione» è evitata dal recipiente di vetro che, abbiamo visto, è una sostanza cattiva conduttrice di calore. La dispersione per «convezione» è evitata dal vuoto spinto tra il recipiente che contiene il corpo e il recipiente esterno. La dispersione per «irraggiamento», infine, è evitata poiché la parete interna del recipiente è argentata e riflette il calore raggiante.
Propagazione del calore per "conduzione"

PERCHÉ LO ZUCCHERO NELL'ACQUA SCOMPARE?

Vi sono in natura alcuni corpi solidi, come ad esempio il sale e lo zucchero, che possono assumere lo stato liquido quando sono posti in contatto con l'acqua o con un altro liquido opportuno.
Mettendo dunque una zolletta di zucchero in un bicchiere d'acqua lo zucchero non scompare ma si scioglie: a poco a poco le sue molecole si mescolano intimamente con le molecole dell'acqua. Per provare che lo zucchero non è scomparso basta assaggiare l'acqua: è dolce.
Il liquido che opera lo scioglimento del solido si chiama «solvente», il solido disciolto «soluto» ed il miscuglio ottenuto «soluzione».
La «concentrazione» di una soluzione, la quantità del solido che può sciogliersi in una certa quantità di solvente, non può superare un certo limite. Al di là di questo limite il solido non si scioglie più e la soluzione si dice «satura».
È interessante sapere che questo limite di saturazione può essere aumentato con il calore. In un liquido caldo si può sciogliere una maggiore quantità di soluto. Ma se, viceversa, una soluzione satura viene raffreddata una parte del soluto ritorna allo stato solido depositandosi sul fondo del recipiente.

PERCHÉ DI NOTTE SI POSSONO VEDERE I «FUOCHI FATUI»?

Può capitare, di notte, nei pressi di una palude o di un cimitero, di veder danzare in prossimità del suolo delle fiammelle azzurrognole, baluginanti in rapidi guizzi.
Per lungo tempo l'immaginazione del popolo attribuì questi guizzanti bagliori a forze soprannaturali, soprattutto in considerazione del luogo in cui più sovente si può assistere a questi strani fenomeni, luogo che ancor oggi è motivo di reverenziale timore.
I «fuochi fatui» non sono altro che gas impregnati di fosforo, generati dalla decomposizione di sostanze organiche, animali e vegetali, che a contatto con l'ossigeno dell'aria bruciano spontaneamente in rapide e brevi fiammelle.

PERCHÉ L'ACQUA DEL RUBINETTO SCORRE CON FORZA?

L'acqua che noi utilizziamo nelle nostre case non solo scorre con forza dal rubinetto ma raggiunge i piani più alti dei palazzi con la stessa intensità.
Il fenomeno è dovuto ad un principio fisico molto importante: il principio dei vasi comunicanti, che noi abbiamo già incontrato parlando dei pozzi artesiani.
Il principio afferma: un liquido collocato in vari recipienti comunicanti tra loro sale in tutti alla stessa altezza.
Applicando in pratica questo principio, negli impianti idrici di una città, si ha un grande serbatoio situato a notevole altezza che accoglie l'acqua da erogare, proveniente attraverso l'acquedotto, dalla fonte di rifornimento. Da questo si dipartono numerosi tubi e condutture che trasportano l'acqua e la distribuiscono agli utenti.
Essendo posti i rubinetti ad altezze inferiori alla altezza del serbatoio, l'acqua, grazie al principio dei vasi comunicanti, tende a raggiungere la stessa altezza del serbatoio... e può così scorrere con forza nelle condutture e raggiungere anche i piani più elevati delle case.

PERCHÉ LA PENTOLA A PRESSIONE FISCHIA?

Dopo aver scoperto che esercitando una notevole pressione si abbassa di molto il punto di ebollizione di un liquido, l'uomo ha inventato la pentola a pressione per guadagnare tempo nel cuocere gli alimenti.
La pentola a pressione è un recipiente metallico molto resistente con un coperchio atto ad essere ermeticamente chiuso. Introdotte le vivande e posta la pentola sul fuoco, il calore sviluppa nel liquido del vapore il quale, dal momento che il coperchio è ermeticamente chiuso, non può fuoriuscire e disperdersi come avviene in una normale pentola. Il vapore si accumula e si comprime, esercitando una sempre crescente pressione sulla vivanda, abbassandone il punto di ebollizione e quindi di cottura. Dopo un certo tempo, però, la pressione diventa tanto forte che rischia di far esplodere la pentola. Per evitare che un utensile domestico tanto utile non si tramuti in una bomba, sul coperchio della pentola c'è una valvola di sicurezza calibrata, che si apre non appena la pressione del vapore supera un determinato limite. Il vapore, dunque, esce con forza dalla valvola che ha una sezione abbastanza piccola: attraversando le anguste pareti del tubicino, il vapore provoca delle vibrazioni sonore, un fischio persistente, che avverte la cuoca che la vivanda è cotta.

PERCHÉ PER VUOTARE UNA FIALA BISOGNA APRIRLA AI DUE LATI?

Le due estremità di una fiala si protendono in forma di tubo capillare: poiché una fiala contiene di solito un farmaco che potrebbe deteriorarsi a contatto con l'aria, una macchina lo racchiude in questa leggera ampolla dopo avervi fatto il vuoto; dopo aver riscaldato le due estremità, infine, le salda assieme distendendole. Se si apre la fiala da un solo lato il liquido non esce perché l'aria fa da tappo esercitando una notevole pressione sulla piccolissima apertura. Inoltre il liquido stesso aderisce a tal punto alle pareti anguste del tubo che impedisce al liquido sovrastante di fuoriuscire. Tagliando via anche l'altra estremità, la pressione dell'aria esercitata su questa nuova apertura annulla la pressione che impediva al liquido di uscire dal tubo. Il farmaco, dunque, ormai non più trattenuto, può cadere in virtù del suo stesso peso, grazie, cioè, alla legge di gravità.

PERCHÉ I FIAMMIFERI SI ACCENDONO?

I fiammiferi sono composti da un bastoncino di legno o di sostanza cerata e da una capocchia rosseggiante. Il bastoncino brucia solo se portato ad una temperatura opportuna. La capocchia è formata da un impasto di fosforo e di zolfo. Il fosforo ha la proprietà di infiammarsi se portato ad una temperatura di 50 gradi. Strofinando il cerino o il fiammifero su una superficie scabrosa si può raggiungere facilmente i 50 gradi necessari affinché il fosforo si infiammi. Non appena ciò accade lo zolfo, sostanza di per sé molto infiammabile, interviene a prolungare la combustione spontanea del fosforo altrimenti troppo breve per poter dar fuoco al legno.
Lo zolfo, pertanto, aumentando la durata della combustione, permette al legno o alla sostanza cerata di infiammarsi e di bruciare.

PERCHÉ IL TRAPANO FA I BUCHI?

Il trapano è una macchina utensile molto antica che lavora con moto rotatorio praticando fori cilindrici in materiali metallici, legname, pietre etc. A che cosa è dovuta la capacità del trapano di effettuare fori? È dovuta essenzialmente alla particolare forma dell'utensile, della punta da trapano, che presenta delle scanalature, come una vite senza fine.
Generalmente durante la lavorazione il pezzo da forare è fisso mentre l'utensile, mosso manualmente o elettricamente, assume un moto rotatorio intorno all'asse del foro e un moto di alimentazione nella direzione dello stesso asse.
Grazie alle scanalature il moto dell'utensile risulta elicoidale: come un'elica, si avvita nel materiale da forare incidendolo profondamente.
Le scanalature, inoltre, servono per il recupero del materiale estratto che, restando nel foro, finirebbe per ostacolare il cammino della punta.

PERCHÉ IL LATTE QUANDO BOLLE FUORIESCE DAL RECIPIENTE?

Parlando del latte, abbiamo detto come esso debba essere sterilizzato prima del consumo per eliminare i germi patogeni.
Posto il latte in un recipiente, lo si mette sul fuoco: quando il latte ha raggiunto i 75 gradi circa e si appresta ad entrare in ebollizione, sulla sua superficie si forma una sottile pellicola abbastanza resistente, formata dalla coagulazione di particelle azotate contenute nel latte.
Questa pellicola, non appena il latte entra in ebollizione, impedisce al vapore acqueo prodotto nel processo di ebollizione di disperdersi nell'aria. Perciò avviene che la massa del liquido entra in movimento, grosse bolle di vapore si accumulano sotto la pellicola e finiscono per spingerla in alto, fuori dal recipiente: è logicamente intuibile come, insieme alla pellicola, fuoriesca anche la parte del latte.

PERCHÉ L'ALCOOL SULLA PELLE FA SENTIRE FRESCO?

L'alcole è una sostanza estremamente volatile ed evapora rapidamente a temperatura ambiente.
Questo brusco cambiamento di stato è determinato dal fatto che l'alcole attinge, per evaporare, il calore dall'ambiente stesso, provocando di conseguenza un'abbassamento di temperatura.
Bagnandoci la pelle con l'alcole, il liquido si volatilizza attingendo il calore necessario dalla pelle... abbassandone così la temperatura.
Ecco perché sentiamo fresco!
Sullo stesso principio sono fondati i numerosi espedienti,. da noi usati d'estate per procurarci un passeggero ma piacevole refrigerio, dall'antico ventaglio al moderno ventilatore.
Essi, infatti, convogliano una certa quantità d'aria sul nostro corpo, accelerano l'evaporazione del sudore la quale determina, come abbiamo visto, un abbassamento temporaneo della temperatura superficiale facendoci sentire una piacevole frescura.

PERCHÉ IL PANE DIVENTA DURO?

Il pane, il più antico e comune degli alimenti, che voi sapete formato da un'impasto di farina, acqua, sale e lievito, nonostante il notevole calore della cottura mantiene, all'uscita dal forno, piccole particelle d'acqua che gli danno l'elasticità propria del pane fresco.
A poco a poco, però, queste particelle d'acqua finiscono per evaporare e il pane si secca e si indurisce, nel giro di due giorni.
Se si conserva il pane in un involucro impermeabile, infatti, esso mantiene una certa umidità e si indurisce meno rapidamente.
Un antico accorgimento per mantenere il pane fresco il più a lungo possibile, ancora in uso nelle campagne o in montagna, consiste nell'avvolgere la pagnotta in un panno umido che limita al massimo l'evaporazione dell'acqua.

PERCHÉ BASTA UNA LEVA ED UN PUNTO DI APPOGGIO PER MUOVERE GROSSI PESI?

La leva è una delle più semplici ed ingegnose macchine ideate dall'uomo e consiste in una sbarra girevole intorno ad un asse fisso, detto «fulcro».
Lo studio del principio di funzionamento della leva risale addirittura ad Archimede. È infatti attribuita allo scienziato siracusano la celebre citazione: «Datemi un punto di appoggio e Vi solleverò il mondo».
Dovendo spostare un masso di notevoli dimensioni, basta inserirvi sotto l'asse della leva, quindi appoggiarla sul fulcro ed infine imprimere una certa spinta sul braccio rimasto libero: noteremo che se il fulcro è posto verso il centro dell'asse la macchina non risulta molto vantaggiosa e la forza che noi dobbiamo impiegare è press'a poco uguale a quella che impiegheremmo a sollevare il masso con le sole braccia. Ma, non appena avviciniamo il fulcro al masso così che l'asse dalla nostra parte risulti più lunga della parte di asse vicina al masso, la forza impiegata per smuoverlo risulta notevolmente inferiore.
La leva dunque risulta vantaggiosa salo quando il braccio relativo alla potenza impiegata è più lungo di quello relativo alla resistenza contrapposta dal peso destinato ad essere smosso.
Moltissime sono le applicazioni pratiche di questo principio: ricordiamo le pinze, le tenaglie, le forbici, lo schiaccianoci e cosi via.
Prendiamo, ad esempio, lo schiaccianoci: grazie alla maggior lunghezza dei bracci relativi alla potenza, una leggera pressione della mano ci consente di vincere la notevole resistenza offerta dall'involucro legnoso della noce.
Una dimostrazione sperimentale più evidente e definitiva del principio è offerta dalle forbici. Dovendo tagliare un cartone abbastanza resistente, l'operazione risulta difficoltosa se eseguita con la punta delle forbici e progressivamente più agevole man mano che avviciniamo il cartone al fulcro, al punto di congiunzione delle due lame.
Esempio di leva

PERCHÉ IL CICLISTA SI PIEGA IN CURVA?

Un atleta che corra in bicicletta su di una strada rettilinea deve vincere la resistenza dell'aria, quella dell'attrito delle ruote sulla strada, quella relativa all'eventuale pendenza: egli riesce a procedere grazie alla potenza dei suoi muscoli ed ai dispositivi tecnici relativi alla propria bicicletta. Non appena imbocca una curva, il ciclista incontra una nuova forma di resistenza da vincere: la forza centrifuga. Questa forza non è altro che la direzione del moto primitivo rettilineo che contrasta con l'intenzione del ciclista di effettuare un cambiamento di itinerario.
Effettuando la strada una svolta, il ciclista dunque si sente trasportare suo malgrado verso il bordo esterno della strada: la bicicletta, in una parola, tenta di proseguire, nonostante la volontà dell'uomo, nel suo originario moto rettilineo. Ma a questo punto subentra l'abilità dell'uomo il quale, piegandosi verso il centro della curva, provoca una reazione dei pneumatici sul suolo, una forza, cioè, che si oppone alla forza centrifuga (forza centripeta) ristabilendo l'equilibrio e mantenendo se stesso e il mezzo nella traiettoria più propria.

PERCHÉ LA CARTA ASSORBENTE ASCIUGA L'INCHIOSTRO?

La carta, conosciuta in Cina fin dal II secolo a.C. e diffusasi in Europa grazie agli Arabi nel I secolo dopo il Mille, è un prodotto fondamentale nella civiltà moderna.
La carta più diffusa e più comunemente usata è fabbricata con diverse sostanze fibrose ridotte dapprima in pasta umida che viene fatta essiccare sotto forma di fogli sottili.
Le materie utilizzate per la fabbricazione della carta sono le più svariate, dagli stracci di canapa, di lino e di cotone al legno, dalla paglia alla canna, alla ginestra, al bambù.
Schematicamente la lavorazione prevede le seguenti operazioni: il completo sfibramento della materia prima e l'impasto con l'acqua per rendere l'insieme omogeneo; l'essiccamento sotto forma di fogli della pasta in opportune forme; la collatura con soluzioni di gelatina animale.
La carta assorbente è un tipo di carta non collata alla quale, grazie ad un'adatta scelta delle materie prime e ad un particolare sistema di lavorazione, si conferisce una grande porosità.
Le fibre che compongono la carta assorbente, infatti, sono separate le une dalle altre da piccoli spazi simili a canali dalla sezione capillare.
Dovendo assorbire l'inchiostro versato o di una scrittura recente, questi canali aspirano e trattengono il liquido per effetto della loro capillarità. Le minime dimensioni di questi spazi, infatti, non consentono al liquido di ricadere poiché la pressione atmosferica costringe l'inchiostro ad aderire fortemente alle pareti dei canali.
Schema: le fasi di produzione della carta

PERCHÉ IL TAPPO DELLA BOTTIGLIA DI «CHAMPAGNE» SALTA?

Per ottenere il vino spumeggiante e frizzante, si mette in bottiglia il succo dell'uva prima che avvenga la sua fermentazione.
Il mosto imbottigliato e opportunamente curato in cantina, diviene vino e la fermentazione provoca una produzione di anidride carbonica che non può fuoriuscire essendo la bottiglia chiusa ermeticamente. Il gas sotto pressione finisce per disciogliersi nel vino, pur continuando a premere contro le pareti di vetro e contro il tappo.
Per vincere questa forte pressione, infatti, le bottiglie destinate a contenere vini spumanti sono di vetro spesso e resistente e il tappo che le chiude è saldamente tenuto legato al collo della bottiglia con del filo di ferro.
Quando il vino è pronto per essere bevuto si toglie il filo di ferro: l'anidride carbonica spinge il tappo a tal punto che, se non preventivamente trattenuto, questo parte come un proiettile, e sotto la spinta della pressione del gas, il vino fuoriesce dalla bottiglia, spumeggiando.

PERCHÉ IL CAFFE' SALE NELLA CAFFETTIERA A PRESSIONE?

La caffettiera a pressione è costituita da tre elementi: un recipiente inferiore dove si pone l'acqua, un piccolo imbuto fornito di un filtro sul quale si mette il caffè polverizzato e un recipiente superiore destinato ad accogliere l'infuso, anch'esso provvisto di un filtro e di una filettatura grazie alla quale avvitarsi al recipiente inferiore. Posta la caffettiera sul fuoco, dopo averla ermeticamente chiusa, l'acqua contenuta nel recipiente inferiore entra a poco a poco in ebollizione sotto l'effetto del calore, producendo vapore acqueo. Essendo ermeticamente chiusa, la caffettiera non permette al vapore di fuoriuscire bensì lo comprime fino al punto di costringerlo a forza ad entrare nel tubo dell'imbuto e a passare attraverso il caffè polverizzato. Il vapore, così, passa attraverso la polvere di caffè e si impregna delle sue sostanze e del suo aroma; quindi procede nella sua corsa verso l'alto attraverso il filtro del recipiente superiore e lungo un nuovo condotto che porta in alto delle aperture.
Lungo questo condotto il vapore perde una parte della sua pressione, si raffredda ed esce all'aperto sotto forma di liquido, caldo e gustoso.

PERCHÉ I BICCHIERI POSSONO ROMPERSI SE VI SI METTE ACQUA BOLLENTE?

Spesso abbiamo avuto l'occasione di parlare degli effetti prodotti dal calore sui corpi ed abbiamo già accennato come l'effetto più evidente del calore sia la dilatazione del corpo riscaldato.
Nei corpi solidi di forma allungata, come fili, sbarre e così via, la dilatazione si riduce praticamente ad un aumento di lunghezza mentre negli altri casi si determina un aumento di volume.
L'aumento di lunghezza o di volume risultano proporzionali alla lunghezza o al volume primitivi e all'aumento di temperatura subìto dal corpo e dipendono dalla sostanza di cui il corpo è formato: vi sono cioè corpi che si dilatano di più e corpi che si dilatano di meno.
Il vetro, come abbiamo più volte avuto occasione di osservare, è un cattivo conduttore di calore e il suo coefficiente di dilatazione è molto basso Versando dell'acqua bollente in un bicchiere la superficie interna, a contatto con l'acqua, si dilata ma questa sua dilatazione contrasta con la rigidità della superficie esterna. Questa, infatti, essendo il vetro cattivo conduttore, non ha il tempo di adeguarsi alla temperatura della superficie interna: la differenza che si viene a creare tra le due superfici della stessa massa provoca la rottura del vetro.

PERCHÉ CI SONO I PARAFULMINI?

In varie occasioni abbiamo parlato dei fulmini, della loro origine, della loro natura e degli effetti disastrosi che possono provocare cadendo.
La potente scarica elettrica che dalle nubi raggiunge una casa, può appiccarvi il fuoco, fondere le parti metalliche, bruciare l'impianto elettrico e provocare la morte di chi la occupa. Un efficace sistema di protezione contro le scariche atmosferiche è il parafulmine, inventato da Beniamino Franklin nel 1753. Il parafulmine di Franklin era un'asta metallica terminante con un fiocco di punte, installata verticalmente sulla costruzione e saldamente collegata alla terra grazie ad una serie di conduttori atti a favorire la dispersione della corrente elettrica.
Nel tempo i parafulmini hanno subito varie trasformazioni. Per i piccoli edifici si utilizza di solito una fune metallica tesa parallelamente alla linea di colmo del tetto e collegata alle varie parti metalliche della costruzione quali le grondaie, i tubi di scarico e così via.
Al parafulmine di Franklin si è preferita in seguito la «gabbia» di Faraday, costituita da una rete di conduttori che avvolge l'intero edificio ed è collegata a tutte le masse metalliche più importanti ed alla terra.
Negli edifici in cemento armato la gabbia è costituita dalla stessa armatura in ferro preventivamente approntata ed anch'essa in contatto con la terra.
Un tipo di parafulmine recente e particolarmente efficace è il cosiddetto parafulmine radioattivo. Esso è formato da un'asta metallica verticale con la punta sagomata e ricoperta di una sostanza radioattiva che ha la funzione di «ionizzare» l'atmosfera circostante e, all'arrivo della scarica, di indirizzarla verso la punta del parafulmine.
È interessante ricordare che i parafulmini non si ergono soltanto sui tetti delle case: anche sulle navi esistono i parafulmini, posti in cima agli alberi e collegati con il mare mediante opportuni conduttori metallici.

PERCHÉ IL PALOMBARO PUO' SCENDERE IN PROFONDITA'?

Fin dai tempi più antichi l'uomo, costituzionalmente inadatto alla vita marina, ha tentato di conquistare il fondo del mare per attingerne i tesori, per arricchire le proprie risorse alimentari. Il sistema più antico e più semplice, ancora in uso presso i pescatori di spugne e di perle, è quello del tuffo in apnea che permette all'uomo di raggiungere, grazie ad un lungo allenamento, profondità ragguardevoli anche se per brevissimo tempo: un uomo, infatti se pure allenatissimo, non può restare senza respirare più di due, o al massimo tre minuti. Il più semplice dispositivo per prolungare alquanto l'immersione è costituito da un tubo affiorante alla superficie dell'acqua, col quale si può respirare restando immersi: questo si può usare solo quando le immersioni sono poco profonde. Volendo prolungare le immersioni in profondità, un semplice ed antico dispositivo, preconizzato da Leonardo con il suggestivo nome di «àlito», è costituito dalla, «campana d'aria», una casacca impermeabile munita di cappuccio stagno con vetri per l'osservazione la quale trattiene nelle parti superiori una certa quantità di aria e permette immersioni di circa venti metri di profondità.
Volendo raggiungere profondità maggiori e mantenere una certa autonomia per compiere lavori di vario genere (pesca, recuperi, lavori alle parti subacquee delle navi, opere murarie, azioni guerresche e così via) occorre indossare uno «scafandro». Uno scafandro per immersioni a medie profondità è un completo di tela cerata impermeabile che l'uomo indossa su un abito di lana e che lascia libere le mani e la testa. Questa viene rinchiusa in un robusto elmo a tenuta stagna collegato con il vestito, fornito di apposite luci protette da vetro spesso e resistente e da valvole per l'entrata e l'uscita dell'aria. Il palombaro si immerge e si muove sul fondo da solo ma è collegato con la «guida», con la barca in superficie, da un cavo, detto «braca».
La respirazione del palombaro può essere assicurata in due modi: con aria a pressione fornita dalla barca mediante una pompa a mano e portata all'elmo mediante un tubo detto «manichetta»; oppure grazie a bombole d'aria compressa fissate sulle spalle del palombaro.
L'aria relativa all'espirazione, in ogni caso, viene scaricata all'esterno da apposite valvole. Grazie al fatto che il palombaro, nell'interno dello scafandro, è rifornito costantemente d'aria, può sopportare la notevole pressione dell'acqua, assai superiore a quella atmosferica alla quale è normalmente abituato, senza eccessivi rischi, purché il ritorno alla pressione atmosferica avvenga tanto più lentamente quanto maggiore è il salto di pressione, tanto maggiore, cioè, è la profondità in cui ha lavorato.
La delicata operazione che si riferisce alla risalita si chiama «decompressione»: se questa non viene effettuata con la dovuta cautela per impedire la repentina liberazione (dovuta al brusco cambiamento di pressione) dei gas, principalmente di azoto, dai liquidi e dai tessuti organici del nostro corpo, la conseguente formazione di «emboli» gassosi nei vari organi può procurare la morte, per «embolia». A questo scopo, tra l'altro, il palombaro viene rifornito non d'aria comune ma di una miscela di ossigeno e di elio. Scafandri di questo tipo possono raggiungere al massimo i 50-70 metri di profondità: oltre, la pressione si fa eccezionalmente forte e le strutture dello scafandro comune non reggono.
Per raggiungere profondità maggiori si utilizzano perciò scafandri speciali, costituiti da una complessa apparecchiatura metallica snodata che riveste interamente il palombaro difendendolo dalla pressione, assicurandogli nell'interno una atmosfera ed una pressione simili a quelle naturali e permettendogli di compiere piccoli spostamenti e di effettuare, con lentezza e difficoltà, piccoli lavori mediante appositi strumenti (pinze ecc.), alla rispettabile profondità di duecento metri ed oltre. Volendo infine raggiungere profondità maggiori l'uomo deve però abbandonare lo scafandro ed entrare in torrette batoscopiche od in batiscafi, appositamente costruiti per raggiungere le profondità abissali e sopportare eccezionali pressioni.

PERCHÉ NELLE GROTTE SI FORMANO LE STALATTITI?

La superficie terrestre è cosparsa di voragini, di pozzi e di grotte. Queste, a sviluppo generalmente orizzontale, hanno origini varie; alcune sono dovute a processi costruttivi come quelle di origine magmatica, quelle sorte in seguito a scolamento lavico, a depositi corallini o travertinosi; altre invece sono dovute a processi distruttivi quali l'erosione, la fusione e la dissoluzione delle rocce che le compongono. Visitando alcune particolari grotte, abbastanza diffuse, abbiamo visto pendere dal soffitto e salire dal pavimento monoliti rocciosi simili a candele: le stalattiti e le stalagmiti. Che cosa sono ed a che cosa sono dovute? Le stalattiti e le stalagmiti si trovano nelle grotte carsiche e sono frutto di un fenomeno denominato «carsismo» che si realizza principalmente entro rocce di natura calcarea, grazie allo intervento ed all'infiltrazione dell'acqua piovana. Non appena l'acqua ha raggiunto, infiltrandosi, un certo grado di acidità, non appena cioè, ha disciolto in sé una certa quantità di anidride carbonica, intacca il carbonato di calcio di cui son formate le rocce: il carbonato di calcio è di per sé insolubile, ma l'anidride carbonica e l'acqua lo trasformano in bicarbonato di calcio, solubile. Questa reazione chimica provoca un lento scioglimento delle rocce... e le fantastiche formazioni calcaree a tutti note.
Seguiamo il processo dall'inizio. Piove e l'acqua filtrando nel terreno raggiunge il soffitto della grotta: qui l'acqua, in virtù dell'anidride carbonica che ha disciolta in sé, trasforma la roccia calcarea in bicarbonato di calcio che si scioglie e cade gocciolando con essa sul pavimento della grotta. Lentamente, con il passare degli anni, goccia su goccia, l'acqua satura di sostanze minerali le deposita dove cade: queste si accumulano e vanno a formare la stalagmite. La stessa cosa avviene sul soffitto, grazie al continuo ed incessante gocciolamento.
Non è raro pertanto incontrare una stalattite ed una stalagmite unite assieme, due formazioni prodotte dalla stessa goccia che finiscono, dopo un certo periodo, per incontrarsi a metà strada.
La formazione di stalattiti e stalagmiti

PERCHÉ L'OLIO GALLEGGIA SULL'ACQUA?

Olio è termine generico che si applica a quelle sostanze che presentano particolari caratteristiche fisiche simili: untuosità, densità di regola inferiore a quella dell'acqua, viscosità, insolubilità nell'acqua, consistenza oleosa e così via.
L'olio è un tipo di grasso ma si distingue da esso perché a temperatura normale si presenta allo stato liquido.
Perché l'olio galleggia sull'acqua? Perché solitamente l'olio è meno denso dell'acqua, ha un peso specifico minore: essendo dunque più leggero viene spinto in superficie (grazie al più volte citato principio di Archimede).La risposta è semplice ma è interessante ricordare altri fenomeni relativi all'olio quando viene a contatto con l'acqua.
Essendo più viscoso dell'acqua l'olio non si mescola con l'acqua: agitandolo violentemente si divide in minute goccioline che, facendo riposare il tutto, ritornano insieme alla superficie e vanno a formare la quantità originaria.
Olio e acqua, olio ed aceto, olio e vino e così via non formano dunque delle «soluzioni» (come abbiamo visto a proposito dello zucchero che scompare nell'acqua) ma delle «emulsioni». L'olio, inoltre, possiede una notevole capacità di tensione: basta una minima quantità perché questa si espanda e ricopra vaste superfici di liquido. Questa straordinaria proprietà torna molto utile ai marinai costretti a navigare in un mare in burrasca: gettando sulle onde, dalla parte di sopravvento, una piccola quantità di oli vegetali o minerali riescono, grazie alla loro eccezionale tensione superficiale, a placare la furia del mare, a frenare l'impeto delle onde ed evitare così ch'esse si frangano sullo scafo.

PERCHÉ STAPPANDO IL LAVANDINO L'ACQUA ASSUME LA FORMA DI UN VORTICE?

Vi è senz'altro capitato di osservare, dopo aver stappato un lavandino colmo d'acqua, che questa penetrando nel tubo di scarico finisce per assumere sempre più decisamente la forma di un vortice. Perché dunque l'acqua non cade tranquillamente nel tubo di scarico ma prende a girare vorticosamente?
Stappando il lavandino noi facciamo in modo che la depressione esistente nel tubo pieno d'aria attiri l'acqua. Le particelle d'acqua iniziano a muoversi a velocità differenti a seconda della loro posizione più o meno vicina al foro e l'acqua comincia a girare per forza d'inerzia e grazie alla rotazione terrestre.
Che il vortice sia effetto dell'inerzia e della rotazione terrestre è provato dal fatto che il senso della rotazione segue le lancette dell'orologio nell'emisfero boreale mentre è «antiorario» nell'emisfero australe.

PERCHÉ LA BICICLETTA HA LA CATENA?

La bicicletta che noi tutti conosciamo ed usiamo discende dal «biciclo», veicolo a due ruote inventato nel 1855, che presentava la ruota posteriore molto piccola rispetto a quella anteriore, più grande, sterzabile e con i pedali rigidamente fissati sul suo asse. Lo sforzo muscolare del ciclista diretto sui pedali faceva girare la ruota le cui dimensioni permettevano di far muovere il mezzo ad una certa velocità. Naturalmente lo sforzo per spingere in avanti il biciclo doveva essere notevole in quanto la gigantesca ruota per girare doveva utilizzare direttamente lo forza muscolare impiegata.
Solo verso la fine del secolo, dopo successivi perfezionamenti, si giunse alla bicicletta attuale, con le ruote uguali, con i pneumatici e soprattutto con la catena di trasmissione.
Grazie alla catena, infatti, il ciclista non agisce più direttamente sulla ruota motrice ma su una o due moltipliche, ruote dentate collegate ai pedali.
La catena trasmette la forza motrice alla ruota posteriore agganciandosi ad un rocchetto di piccole ruote dentate di varie dimensioni.
Variando il rapporto di trasmissione tra i due estremi, tra le moltipliche, cioè, e gli ingranaggi del mozzo posteriore (tramite un cambio manuale a scavallamento) è possibile ottenere una gamma di sviluppi per giro di pedale variante tra i quattro metri e i nove metri circa.
Ciò torna assai utile dovendo compiere percorsi misti: per vincere una ripida salita utilizzeremo perciò un basso e agile rapporto (ad es. 36 denti per la moltiplica e 20 denti per il rocchetto) mentre in pianura o in discesa, qualora vogliamo far raggiungere al mezzo una notevole velocità, potremo premere sui pedali usando un alto e duro rapporto (ad es. 40 denti per la moltiplica e 12 denti per il rocchetto).
Schema di bicicletta

Modello tridimensionale della bicicletta inglese Denis dei primi dell'800

Modello tridimensionale della bicicletta inglese Facile del 1886

Modello tridimensionale di bicicletta da corsa

PERCHÉ CERTI SPECCHI DANNO IMMAGINI DEFORMATE?

Abbiamo precedentemente parlato dello specchio e abbiamo detto che, grazie ad una superficie argentata protetta da una lastra di vetro, può riflettere le immagini.
Ogni punto luminoso di un oggetto posto di fronte ad uno specchio viene fedelmente riflesso e se lo specchio è costituito da una superficie piana e regolare l'immagine dell'oggetto è riprodotta con assoluta fedeltà, anche se in modo simmetrico.
Ma se lo specchio non ha una superficie perfettamente piana e si presenta invece concavo o convesso, l'immagine dell'oggetto non ci apparirà simmetricamente identica all'oggetto che l'ha determinata ma presenterà conseguentemente delle caratteristiche deformazioni.
Nel caso di uno specchio concavo, infatti, i raggi luminosi provenienti dall'oggetto vengono riflessi in direzione del «fuoco» dello specchio e i nostri occhi vedranno di conseguenza un'immagine dell'oggetto più piccola e capovolta se l'oggetto è posto ad una certa distanza dal fuoco dello specchio e un'immagine più grande e diritta se l'oggetto è posto tra il fuoco e la superficie riflettente dello specchio.
Nel caso di uno specchio convesso, invece, qualunque sia la posizione dell'oggetto, se ne otterrà sempre un'immagine diritta e impicciolita.
Per avere una prova di tutto ciò basta mettersi di fronte ad un cucchiaio d'acciaio inossidabile: osservando il nostro volto riflesso dalla superficie metallica riflettente lo vedremo piccolo e capovolto nell'interno del cucchiaio e piccolo e diritto sulla superficie esterna e convessa.

PERCHÉ IL FERRO PRENDE LA RUGGINE?

Abbandonando alle intemperie un utensile di ferro qualsiasi, un'ascia, ad esempio, la troveremo dopo un certo tempo ricoperta di ruggine, di uno strato di sostanza friabile e rossiccia che ci rivela come la superficie metallica dell'utensile sia stata corrosa. Che cosa è avvenuto?
Il ferro, a contatto con l'aria e con l'acqua, si è combinato chimicamente con l'ossigeno e si è trasformato in ossido di ferro.
La superficie metallica dell'utensile, dunque, si riveste di uno strato di ruggine poroso e permeabile all'aria ed all'umidità: il procedimento corrosivo continua, perpetuandosi la reazione chimica tra il ferro e l'ossigeno anche negli strati più profondi dell'utensile. Dopo un lungo periodo di tempo il metallo ha perso la sua originaria consistenza ed è divenuto un ammasso scaglioso e friabile, di nessuna utilità.
La ruggine è dunque un nemico pericoloso che gli uomini hanno comunque imparato a combattere.
Per limitare l'azione corrosiva della ruggine basta spalmare il ferro d'olio o di grasso, verniciarlo con speciali vernici antiruggine che isolano il ferro e lo proteggono dal contatto con l'aria e con l'acqua, oppure costruire acciai speciali contenenti cromo o nichel, sostanze assai resistenti e pressoché inalterabili.

PERCHÉ SI USANO I REMI PER FAR PROCEDERE UNA BARCA?

Il remo è un'asta di legno opportunamente sagomata che, poggiando sull'acqua, consente di far procedere l'imbarcazione per mezzo di una certa quantità di forza muscolare impiegata dell'uomo.
Il remo funziona come una leva (del cui principio fisico abbiamo già parlato) che ha il fulcro nella parte estrema immersa nell'acqua, il braccio relativo alla resistenza situato nello «scalmo» posto sul bordo dell'imbarcazione e il braccio relativo alla potenza nell'estremità opposta in cui il vogatore esercita lo sforzo.
Il vogatore, in una parola, utilizza una leva (il remo) e un punto d'appoggio (l'acqua) per far muovere la sua barca.
Il remo, nella sua forma nota, è d'origine preistorica ed ha costituito per moltissimi secoli l'unico mezzo di propulsione delle navi, indipendentemente dalle forze naturali (venti, correnti, etc.). I remi usati nelle triremi elleniche e romane e nelle galee cinquecentesche raggiungevano grandi dimensioni, fino a toccare i dieci metri di lunghezza, mentre oggi, per le moderne imbarcazioni da regata e da pesca, essi hanno dimensioni minori ma forme più aggraziate, con pale ricurve e «ginocchi» («ginocchio» si chiama il punto in cui il remo appoggia sullo scalmo) rivestiti di cuoio.
Rimasto sostanzialmente immutato nel tempo il remo è generalmente costruito in legno resistente ed elastico (frassino o faggio) ed è formato da una asta di varia lunghezza allargata e piatta all'estremità destinata ad essere immersa nella acqua.

PERCHÉ LA VELA FA PROCEDERE L'IMBARCAZIONE?

La vela è un tessuto, generalmente di tela, che applicato all'alberatura di un natante lo fa procedere sfruttando la spinta del vento. D'origine antichissima, dopo successive modificazioni e perfezionamenti, la vela è attualmente formata da varie strisce di tela olona unite insieme da cuciture doppie, parallele e i cui contorni sono orlati solitamente di corda. La parte superiore viene allacciata al pennone dell'imbarcazione mentre agli angoli inferiori sono fissate le manovre che servono a tesarla.
Per quanto riguarda la forma, i tipi di vela più noti sono le «vele quadre», leggermente trapezoidali che vengono appese ad un pennone orizzontale ed orientate a seconda della direzione del vento facendo ruotare il pennone per mezzo dei «bracci». Data la semplicità con cui possono essere manovrate e la possibilità di frazionarle in numerosi elementi (trevi, gabbie, velacci etc.) sono assai adatte per i grandi velieri e danno un ottimo rendimento benché non consentano di «stringere» il vento a meno di 67 gradi dalla prora.
Meno maneggevoli ma più adatte a stringere il vento sono le «vele latine» di forma triangolare il cui lato più lungo è allacciato ad un'antenna più o meno inclinata.
Inoltre ricordiamo le «vele auriche» di forma quadrilatera con un lato allacciato ad un albero verticale e le «vele a tarchia», anch'esse di forma rettangolare, sostenute da un'asta diagonale che in basso è fissata ai piedi dell'albero.
Più moderne sono le vele delle imbarcazioni da regata: sono di forma triangolare, allacciate direttamente ad un albero verticale e sono dette «vele alla bermudiana» o «vele alla Marconi».
In varie parti del mondo esistono ancora vele che, per quanto riguarda la costruzione e la forma, risalgono alla più remota antichità. Ricordiamo le vele quadrangolari delle giunche cinesi rinforzate orizzontalmente da costole di bambù; le vele polinesiane fatte con fibre vegetali intrecciate e la cui forma ricorda le chele dell'aragosta oppure triangolari con il vertice acuto rivolto verso il basso; ed infine le vele di pelle delle canoe indiane.
Modello tridimensionale della nave Amerigo Vespucci, varata il 22 febbraio 1931

Modello tridimensionale di nave corsara

Modello tridimensionale di nave greca

Modello tridimensionale della nave a vela Mayflower, imbarcazione con cui i padri pellegrini inglesi raggiunsero l'America nel 1620

Modello tridimensionale della caravella Pinta usata da Colombo

Modello tridimensionale di nave romana

Modello tridimensionale di antica nave vichinga in uso nei sec. IX e X

PERCHÉ LA SVEGLIA SUONA?

La sveglia è un meccanismo importante nella nostra civiltà, un meccanismo che separa, in modo rumoroso e fastidioso, come un inflessibile secondino, il tempo dedicato al sonno da quello da dedicare al lavoro. Che cos'è una sveglia? È una soneria applicata ad un orologio.
Posta la lancetta della soneria sull'ora alla quale vogliamo essere destati, carichiamo una molla, simile a quella che fa girare le lancette dell'orologio, la quale viene bloccata da una leva e resta in tensione.
All'ora stabilita, una ruota, che è munita di un dente circolare a piano inclinato facente parte dei numerosi movimenti dell'orologeria, provoca lo sbloccaggio della molla ed il disimpegno della suoneria.
Ruotando, il dente striscia su una spina posta sull'albero che porta l'indice della soneria, fisso sull'ora dovuta, finché non sblocca la leva la quale libera la molla in tensione che mette in funzione la soneria.
Questa prende a suonare, anche ad intermittenza, e continua finché la molla non si è completamente scaricata.

PERCHÉ AL CINEMA LE IMMAGINI SI MUOVONO?

La cinematografia, il movimento delle immagini sullo schermo, si fonda essenzialmente su un fenomeno fisiologico, di cui abbiamo già parlato a proposito della televisione. Questo fenomeno riguarda i nostri occhi e si riferisce alla persistenza delle immagini sulla retina per un certo intervallo (circa un trentesimo di secondo); così che, se davanti a noi scorrono delle immagini staccate, succedentisi l'una dall'altra ad un intervallo minore del tempo di persistenza, il nostro cervello fonde le singole immagini e ci dà la netta sensazione del movimento. Una macchina da ripresa, dunque, fissa sulla pellicola una serie di fotogrammi che riprendono una particolare scena: le fotografie istantanee si succedono ad un intervallo brevissimo l'una dall'altra. La ripresa viene effettuata da una macchina da presa, detta «cinecamera» o «cinepresa», che funziona come una normale macchina fotografica. La pellicola, assai sensibile, omogenea e particolarmente sottile, scorre davanti all'obiettivo della cinecamera in modo intermittente, con una velocità prefissata.
Il meccanismo di trasporto della pellicola è costituito da una griffa azionata da un motore elettrico, nelle macchine da presa a passo normale, o da un motore a molla, nelle macchine a passo ridotto; la griffa assicura lo scorrimento intermittente della pellicola facendo presa sui fori situati sui bordi di questa: facendola avanzare con la rapidità voluta ne espone un tratto alla volta, tratto corrispondente all'altezza di un fotogramma.
Sincronizzato con il movimento della griffa è naturalmente l'otturatore dell'obiettivo, che si apre quando il tratto di pellicola dev'essere impressionato e si richiude tra un'esposizione e la successiva.
Una macchina da proiezione, quindi, proietterà i fotogrammi nella medesima successione con la quale vennero ripresi e con la stessa frequenza, con lo stesso numero di immagini per ogni secondo, di modo che lo spettatore possa vedere la scena in movimento con la stessa rapidità con cui si svolse e venne ripresa nella realtà.
Modello tridimensionale di cinepresa non professionale degli anni Settanta

PERCHÉ I FUOCHI ARTIFICIALI SI DIVIDONO IN TANTI COLORI?

I fuochi d'artificio sono generalmente costituiti da due parti fondamentali: un razzo portante che serve a far giungere il tutto ad una certa altezza e un insieme di altri razzi di più debole potenza che si accendono in ritardo rispetto al primo. I razzi portanti, che contengono in sé l'ossigeno necessario alla combustione, sono caricati con un impasto esplosivo formato da salnitro, zolfo e carbone mentre quelli a scoppio ritardato chiamati «cartocci» possono accendersi e disegnare in cielo archi colorati grazie all'aggiunta nell'impasto esplosivo di svariate sostanze che, bruciando, producono particolari colorazioni.
Tra esse ricordiamo il magnesio e l'alluminio che danno la luce bianca, lo zinco e l'antimonio che danno luce azzurrognola, i composti del sodio che danno luce rossa ed infine quelli del bario e del rame che danno luce verde.

PERCHÉ PER LAVARE USIAMO IL SAPONE?

Nei tempi antichi pare che i Galli fabbricassero sapone con sego, cenere e calce e lo usassero come cosmetico. Sembra che sia stato il medico Claudio Galeno (II sec. d. C.) che per primo indicò le proprietà detergenti del sapone. Da allora questo prodotto fu utilizzato per lavare e, nel Medioevo, i principali luoghi di produzione furono Marsiglia e Savona. Fabbricato dapprima con metodi empirici, solo nel XIX secolo, grazie ai progressi della chimica, se ne diffuse la fabbricazione su basi scientifiche.
Il sapone, nella sua definizione chimica, è il nome con cui si indicano i sali alcalini degli acidi grassi ad elevato numero di carbonio.
Il potere detergente del sapone è dovuto alla proprietà della soluzione colloidale, che esso forma con l'acqua e di «bagnare» le fibre dei tessuti più di quanto non le bagni lo sporco: la soluzione, cioè, a contatto con le fibre, vi penetra a fondo e distacca lo sporco dividendolo in piccole particelle che, entrando in emulsione con il liquido saponoso, vengono allontanate mediante lo sfregamento.
Le materie prime usate per la fabbricazione del sapone sono i grassi animali, come il sego di bue, il lardo di maiale, l'olio di ossa, l'olio dei cetacei e dei pesci, e i grassi vegetali come l'olio di arachide, di oliva, di cocco, di lino o di girasole. Oltre ai grassi animali possono essere utilizzati gli acidi grassi derivanti dalla loro scissione. Per ottenere la saponificazione dei grassi, ad essi vengono aggiunti alcali idrati (soda o potassa caustica) sotto forma di carbonati allo scopo di neutralizzare gli acidi.
La fabbricazione del sapone viene fatta in grandi caldaie metalliche riscaldate mediante serpentine di vapore: alcuni sistemi più recenti prevedono che il vapore gorgogli direttamente nella massa da riscaldare.
Se si vuol saponificare dei grassi, si fanno riscaldare per primi e nella massa calda si introduce a piccole dosi la quantità necessaria di alcali caustici: dopo un'ebollizione di alcune ore si ottiene la completa saponificazione delle sostanze grasse.
Segue quindi l'operazione detta di «salatura» o «granatura», che consiste nell'introdurre nelle caldaie una notevole quantità di sale comune il quale fa precipitare il sapone vero e proprio in grumi o in fiocchi: il sale, dunque, separa il sapone da un insieme di sostanze superflue che comprendono acqua, glicerina, i residui della soda e della potassa caustiche e il cloruro di sodio (sale da cucina) che è servito per fare precipitare il sapone. Questo, più leggero della soluzione, vi galleggia sopra: la lisciva può perciò essere estratta dalla caldaia ed inviata in speciali reparti dove da essa si estrae la glicerina greggia e il sale che può essere nuovamente utilizzato.
Il sapone rimasto nelle caldaie viene ancora fatto bollire con l'aggiunta di acqua, riportato ancora allo stato colloidale e quindi nuovamente salato allo scopo di estrarre ogni residuo possibile di glicerina ed ogni impurità rimasta.
Se si vuole invece saponificare degli acidi grassi, nella caldaia si pone prima una soluzione bollente di carbonato alcalino e in essa si fanno cadere gli acidi che vi si sciolgono con abbondante produzione di anidride carbonica; quindi si procede ad immettere una soluzione di alcali caustici che procedono alla saponificazione. La lavorazione degli acidi grassi è più semplice poiché non dà come risultato la lisciva contenente glicerina (gli acidi grassi, infatti, derivano dalla scissione dei grassi e la glicerina è un prodotto di questa scissione) ma solo una soluzione salina che viene gettata via: ma i saponi ottenuti dalla lavorazione degli acidi sono di qualità inferiore a quelli ottenuti saponificando i grassi.
In ambedue i casi, comunque, il sapone rimasto nelle caldaie viene aspirato da un tubo a snodo ed avviato alle presse di raffreddamento: da qui, compresso e raffreddato, esce in grosse lastre che, tagliate opportunamente, vengono messe in commercio.
Per quanto riguarda i saponi da bagno, quelli che utilizziamo per lavarci, la lavorazione è più accurata, le materie prime sceltissime: la massa ottenuta nelle caldaie viene ridotta in scaglie minute che, dopo essere state mescolate con colore e profumo vengono compresse entro una trafila a vite senza fine e, il prodotto ottenuto, opportunamente tagliato e sagomato, viene confezionato ed inviato al consumo.
Spaccato di una caldaia per la lavorazione del sapone

PERCHÉ SI POSSONO FARE DELLE BOLLE CON ACQUA SAPONOSA?

Generalmente la superficie di un liquido si comporta come una membrana elastica. Se noi soffiamo in una cannuccia immersa nell'acqua si formano delle bolle d'aria racchiusa dal liquido. L'acqua, da sola, non possiede però la coesione sufficiente per poter mantenere l'aria: la superficie della bolla s'infrange e l'aria sfugge e si libra verso l'alto, disperdendosi. Ma se nell'acqua è disciolto del sapone, il liquido si presenta come una soluzione colloidale di notevole coesione.
Una goccia d'acqua saponosa, dunque, è limitata da una sottilissima pellicola superficiale che si comporta come un involucro di gomma.
Soffiandovi dentro, la pressione del gas costringe la membrana a tendersi e, se questa pressione non è eccessiva, tale cioè da vincere la forza di coesione delle molecole del liquido, si ottiene una bolla iridescente che si libra nell'aria.
È interessante, inoltre, ricordare che la forma sferica delle bolle di sapone è dovuta al fatto che la pressione del gas in essa contenuto è uguale in tutti i punti dell'involucro elastico, e che l'iridescenza delle bolle è dovuta al fatto che la luce bianca del sole è scomposta dalla sottile pellicola liquida nei sette colori dell'iride come se passasse attraverso un prisma di cristallo.

PERCHÉ SI DICE CHE IL CAFFE' NON FA DORMIRE?

Il caffè deriva da una pianta, la «coffea arabica» della famiglia delle Rubiacee, i cui semi, torrefatti e macinati in polvere, danno l'infuso a tutti voi noto.
La pianta del caffè è alta cinque o sei metri, sempreverde, con foglie ovali e lucide; i fiori sono bianchi ed odorosi, riuniti in fascetti, e danno un frutto che contiene due nocciolini consistenti, detti «pergamini», i quali, a loro volta, contengono un seme, un grammo o chicco di caffè convesso da un lato, piatto e solcato dall'altro, avvolto in un tegumento sottile ed argenteo, formato prevalentemente di albume.
La pianta cresce bene in zone dove la temperatura non superi i 30 gradi e non vada al di sotto dei 5 gradi, predilige terreno umido e ricco di sostanze nutritive.
La pianta del caffè sembra che sia originaria dell'Africa tropicale ed in particolare dell'Abissinia, dove cresce spontaneamente a più di mille metri di altitudine, e che l'uso di bere la polvere dei suoi chicchi sotto forma d'infuso sia stata introdotta nello Yemen da un santo di Moca, per prolungare le veglie dei religiosi in preghiera. Furono i Veneziani ad importarlo dall'Oriente nel XVI - XVII secolo.
L'infuso di caffè, bevuto in dosi opportune, produce nell'organismo una particolare azione farmacologica, grazie alle sostanze chimiche contenute nei chicchi, azione eccitante dei movimenti peristaltici dello stomaco e del sistema nervoso centrale.
Quindi non solo è vero che il caffè non fa dormire, agendo come stimolo della corteccia cerebrale e allontanando la stanchezza e la sonnolenza, ma fa anche digerire - più in fretta, stimolando la peristalsi gastrica.
Ciò è dovuto oltre che a principi attivi come l'acido clogenico, la colina e così via, ad un'altra importante sostanza: la caffeina.
La caffeina, contenuta non solo nei chicchi del caffè (1%) ma anche nelle foglie del tè (5%), nella noce di cola e in molte altre piante, è una sostanza organica azotata formata da carbonio, ossigeno, azoto ed idrogeno particolarmente combinati, che si presenta in forma di cristalli incolori, amarognoli e solubili.
Come molti altri alcaloidi affini (morfina, codeina etc.) viene utilizzata in medicina, in dosi opportune, per eccitare il sistema nervoso, per elevare il tono del cuore e della respirazione, come valido aiuto, quindi, nella cura dell'insufficienza cardiaca.
La caffeina si estrae dalle foglie di tè (Camelia theifera) o, sistema oggi abbastanza affermato, dai chicchi del caffè per ottenere, tra l'altro, caffè decaffeinato.
I chicchi del caffè crudo vengono trattati con trielina che scioglie la caffeina; la soluzione, poi, viene sottoposta all'azione del vapore che elimina il solvente lasciando la caffeina pura in forma di cristalli.
I chicchi decaffeinizzati vengono poi essiccati e tostati affinché anche coloro a cui l'infuso normale è controindicato (bambini, soggetti ipereccitabili od affetti da infiammazioni gastriche, cardiache etc.) possano gustare l'aromatica bevanda.
Dalla raccolta del seme al consumo possono passare anche diversi anni, in quanto il processo d'invecchiamento migliora la qualità del prodotto.
Importante, per quanto riguarda la preparazione del caffè, è l'operazione della tostatura o torrefazione. I chicchi vengono riscaldati lentamente fino ad una temperatura di 200-220 gradi in recipienti aperti, mescolando continuamente. La torrefazione deve essere arrestata tempestivamente nel momento in cui sta per iniziare la decomposizione delle sostanze proteiche e lo sviluppo degli olî aromatici.
All'operazione di torrefazione, deve seguire un raffreddamento rapido e senza ventilazione, affinché il chicco tostato mantenga tutto il suo aroma.

PERCHÉ LA POLVERE DA SPARO S'INCENDIA ED ESPLODE?

Nota fin dalla più remota antichità in Oriente (Marco Polo ce ne parla nel suo Milione), la polvere da sparo fu introdotta in Europa verso la prima metà del 1300, si dice ad opera di un certo Berthold Schwartz, monaco tedesco. Questo tipo di polvere, detta «polvere nera», era composta da salnitro (nitrato potassico) carbone e zolfo, secondo una ricetta ben precisa.
Una buona polvere nera ha colore grigio ardesia, non lascia tracce se deposta su di un foglio di carta e se vi brucia sopra, lo lascia intatto.
Esposta all'aria ne assorbe l'umidità e se questa supera un certo limite (14%) la polvere perde le sue proprietà e diventa inservibile.
Ecco perché, parlando dell'archibugio, abbiamo detto che poteva sparare solo se non pioveva!
La polvere nera, nonostante gli svantaggi offerti dalla scarsa potenza e dall'eccessiva produzione di fumo, fu usata fin quasi alla fine del secolo scorso. Fu poi sostituita da altri prodotti più efficienti quali le polveri «infumi» a base di nitrocellulosa, ottenute sciogliendo del «cotone collodio» (nitrocellulosa) in una miscela di alcole e di etere (P. Veille nel 1884, in Francia) e dalle polveri infumi a base di nitroglicerina. Nel 1888, infatti, comparve in Germania la prima «balistite», ottenuta dallo scienziato svedese Nobel sciogliendo il cotone collodio in nitroglicerina e laminando il prodotto a caldo.
Perché le polveri da sparo s'incendiano ed esplodono? Le polveri da sparo sono delle sostanze chimiche che, opportunamente innescate, grazie all intervento di una certa quantità d'energia termica o meccanica (fuoco o percussione) danno luogo ad un'esplosione.
Questa esplosione è, nella maggior parte dei casi, un processo di ossidoriduzione: nella polvere nera, ad esempio, è il nitrato di potassio che, a contatto con il calore, sprigiona ossigeno e determina l'ossidazione e la combustione del carbone e dello zolfo, che noi sappiamo essere sostanze estremamente infiammabili.
Nelle polveri moderne, a base di nitrocellulosa e di nitroglicerina, è il nitro (il gruppo NO2) che fornisce l'ossigeno necessario all'ossidazione del carbonio e dell'idrogeno costituenti il resto della molecola organica.
È facilmente intuibile come possa venir utilizzata questa esplosione: la straordinaria quantità di gas sviluppati dal processo producono, specialmente se costretti nell'interno di un bossolo, la pressione sufficiente ad espellere con forza un proiettile (e tutti hanno un'idea di quale sia la velocità di una pallottola provocata dall'esplosione di un po' di polvere in una cartuccia!).
La proprietà, poi, di certi tipi di polveri, di determinare una combustione completa (con produzione autonoma di ossigeno) le hanno rese adatte ad essere impiegate come propellenti per endoreattori (razzi e missili).

PERCHÉ UN ACCENDISIGARI SI ACCENDE?

Fin dalla preistoria, dal giorno in cui l'uomo scoprì il fuoco, egli si è trovato nella necessità di produrre la scintilla che serve ad accenderlo, funzione oggi espletata dai fiammiferi e dalle macchinette accendisigari.
Noti sono i sistemi primitivi per produrre il fuoco (strofinare tra loro rami secchi o pietre), sistemi faticosi e di una lentezza esasperante.
Finalmente l'uomo s'avvide un giorno che alcune pietre, con le quali costruiva asce o punte per la lancia, sfregate contro un pezzo di metallo, avevano la proprietà di produrre scintille.
L'uomo aveva scoperto la «pietra focaia», un minerale compatto ed opaco, di colore bruno, rossastro, grigio o nero, una varietà di calcedonio chiamato anche «selce piromaca».
Nacque il primo «acciarino», il lontano progenitore del moderno accendisigari.
L'accendisigari, infatti, funziona per quanto riguarda la produzione delle scintille, secondo lo stesso principio: una rotellina di metallo viene sfregata con forza su una «pietra focaia». Questa, però, non più quella usata dai nostri antenati, è un piccolo cilindro fatto di una speciale «lega piroforica», costituita da ferro e da minerali del gruppo del cerio.
La scintilla prodotta, poi, non è più indirizzata su un fascetto d'erba secca ma su uno stoppino imbevuto di benzina o, negli accendisigari più moderni, su un getto di vapore infiammabile prodotto dalla lenta evaporazione di una certa quantità di gas liquido contenuto nell'apposito serbatoio,

PERCHÉ LE STOFFE SCOLORISCONO?

Abbiamo accennato precedentemente al fatto che la Natura ha fornito l'uomo di molte sostanze coloranti e di pigmenti, che egli estrae dai minerali, dalle piante e dagli animali. Con l'aiuto della chimica utilizza questi coloranti per tingere stoffe, pelli e molti altri oggetti d'uso comune. Le sostanze coloranti sono prive di corpo ma hanno la capacità di fissarsi su altri corpi, conferendo loro la particolare colorazione.
A che cosa è dovuto il colore?
Una sostanza appare colorata quando assorbe alcune radiazioni luminose e ne riflette delle altre, diffondendole.
Noi sappiamo, infatti, che Ia luce è formata da sette tipi di radiazioni visibili, di diversa lunghezza d'onda. Quando la luce colpisce, ad esempio, un oggetto che a noi appare arancione, ciò vuol dire che la sostanza che compone l'oggetto assorbe tutte le radiazioni luminose meno l'arancione: la radiazione arancione viene respinta e diffusa, ed è per questo che l'oggetto ci appare così colorato.
Vi sono casi in cui, inoltre, la sostanza che compone l'oggetto assorbe una sola radiazione diffondendo le altre: l'oggetto allora ci apparirà del colore complementare a quello assorbito.
Ad esempio, se il colore assorbito è il rosso, l'oggetto ci apparirà verde, se è blu ci apparirà giallo e se, viceversa, è giallo ci apparirà blu e così via. La proprietà di assorbire e di riflettere i colori è legata, naturalmente, alla struttura chimica del colorante.
Perché molti oggetti, dunque, come ad esempio i tessuti, possono perdere a poco a poco il loro colore originario?
La luce che viene assorbita o respinta, come abbiamo già visto in precedenza, è formata da radiazioni luminose, da «fotoni», «quanti» abbastanza considerevoli di energia radiante, energia che scuote a lungo andare la compagine elettronica delle sostanze coloranti, eccita fenomeni di ossidazione che ne modificano la struttura rendendole a poco a poco incolori. L'uomo ha cercato di frenare questo progressivo scolorimento, mettendo a punto sistemi di lavorazione (coloranti al tino) che consentono di produrre sostanze coloranti particolarmente stabili alla luce e resistenti agli agenti atmosferici, ai detersivi etc.
I migliori risultati, che rasentano la perfezione, li ha ottenuti con i coloranti «indantrene», coloranti organici artificiali derivati dall'antrachinone.

PERCHÉ IL VINO DIVENTA ACETO?

Abbiamo già accennato in un numero precedente che il vino è il prodotto derivante dalla fermentazione alcoolica del mosto ottenuto dal succo dell'uva opportunamente «pigiata» e posta in tini di legno o in vasche di cemento.
Che cosa significa «fermentazione»? La fermentazione è un processo di decomposizione, in seno alla materia organica, operato da microrganismi. I microrganismi che operano nel mosto, chiamati anche «lieviti», sono funghi unicellulari che trasformano lo zucchero in alcole etilico.
Durante il processo di trasformazione, dalla reazione chimica suddetta, si sviluppa una notevole quantità di anidride carbonica (ed è per questo che è pericoloso respirare a lungo i fumi del mosto in fermentazione).
La fermentazione può avvenire in assenza o in presenza delle bucce, in relazione al fatto che si vogliano ottenere vini rossi o vini bianchi: il colorante, infatti, è presente nelle cellule delle bucce e non nel succo dell'acino.
Non appena la fermentazione è scemata d'intensità e lo svolgimento d'anidride carbonica è ormai ridotto, si procede alla «svinatura», separando cioè il vino-mosto dalle vinacce e dalla feccia di fermentazione. Il vino-mosto, trasferito in altri recipienti, completa più lentamente la trasformazione degli zuccheri residui in alcole e viene quindi trasferito in cantina per essere sottoposto a particolari interventi per la sua migliore conservazione.
Tra le alterazioni cui il vino va soggetto, quella più vistosa e nota è la trasformazione in aceto, operata da acetobatteri.
Questi microrganismi, assetati d'aria, si raccolgono in colonie alla superficie del liquido, formando una pellicola più o meno densa, nota con il nome di «madre dell'aceto». Grazie alla presenza dell'aria, l'attività degli acetobatteri determina la fermentazione acetica dell'alcole: l'alcole etilico, cioè, viene ossidato e trasformato in acido acetico. Ciò spiega perché spesso, per conservare il vino in fiaschi o in damigiane, vi si aggiunge una piccola quantità d'olio: esso, più leggero del vino, forma una pellicola impermeabile sulla superficie del liquido e ne impedisce il contatto con l'aria evitando così che gli acetobatteri portino a compimento la loro opera di ossidazione.
Questo procedimento, naturalmente, si usa quando non si vuole che il vino diventi aceto.
Per produrre aceto, invece, basterà inserire in una botte una certa quantità di buon aceto e aggiungere, di solito ogni otto giorni, piccole dosi di vino fino a riempire la botte a metà. Questo processo di acetificazione (metodo francese o di Orléans) è lento, dura diverse settimane ma consente di ottenere aceto di ottima qualità.
Meno pregiato ma di più agevole produzione è l'aceto ottenuto con il metodo tedesco, che utilizza un tino di forma troncoconica, diviso in tre scompartimenti. In quello inferiore sono posti trucioli di legno di faggio che vengono lavati con aceto affinché le colonie di acetobatteri si diffondano su tutta la loro superficie. Il liquido da acetificare viene immesso nello scompartimento superiore, passa a quello mediano assai aerato, parzialmente acidificandosi ed infine cade sui trucioli di legno di faggio, acidificandosi ulteriormente. Il processo si ripete finché non si giunge alla completa trasformazione del liquido in aceto.

PERCHÉ IL LATTE DIVENTA YOGHURT?

Ad un processo simile a quello della trasformazione del vino in aceto si deve lo yoghurt, il quale non è altro che il latte in cui si sono sviluppati bacilli lattici quali il «Lactobacillus acidophilus» e il «Bacillus Bulgaricus»
Questi microrganismi hanno la capacità di trasformare il lattosio, lo zucchero contenuto nel latte, in acido lattico, provocando a poco a poco la coagulazione acida del latte stesso.
Lo yoghurt, dunque, ricco di questi «fermenti lattici», è molto indicato nei casi in cui risulta turbato l'equilibrio, nel nostro apparato digerente, tra processi fermentativi e processi putrefattivi. Nello stomaco infatti esistono due tipi di flora batterica, una «fermentativa», diretta ad intervenire sulle sostanze zuccherine sfuggite alla digestione enzimatica, l'altra «putrefattiva», che determina una degradazione delle sostanze proteiche ingerite. Lo yoghurt od altre colture artificiali di fermenti lattici correggono, specialmente nei bambini, turbe digestive provocate dall'eccessiva attività della flora putrefattiva, contrastandola.

PERCHÉ SI FA INVECCHIARE IL VINO?

Avvenuta la fermentazione del mosto, si è ottenuto il vino giovane che viene trasferito in cantine di elaborazione, dove riceve le cure necessarie che lo renderanno atto al consumo.
Se deve ancora completare la fermentazione, la cantina viene tenuta ad una temperatura costante di 15 gradi. In seguito se ne abbasserà la temperatura (artificialmente nei grandi impianti) per favorire l'evoluzione dei processi successivi, quali, ad esempio, la deposizione sul fondo delle vasche di sostanze insolubilizzate in sospensione. Se il vino è in botti, poi, occorre praticare periodiche aggiunte per sostituire il vino lentamente evaporato. A volte, infine, occorre praticare cure speciali come la rifermentazione (tipica dei vini Chianti), la carbonicazione, la filtrazione e il taglio. Se il vino ottenuto non è destinato al consumo nell'anno stesso del raccolto, esso naturalmente invecchia.
L'invecchiamento dei vini solitamente ne aumenta il pregio, per il fatto che il tempo favorisce lo svolgimento di quei processi interni che portano ad un maggior equilibrio tra i vari componenti del vino quali l'alcole, gli zuccheri, gli acidi e gli estratti, equilibrio che determina il più delle volte armonia tra sapore, aroma e colore.
L'invecchiamento, inoltre, fa sì che il vino aumenti in gradazione per effetto di una lenta fermentazione degli zuccheri residui in alcole.
L'invecchiamento si fa in botti o in bottiglie, a seconda dei tipi di vino.
I vini fini e speciali vengono di norma imbottigliati. Importanti sono la forma, il colore e il vetro delle bottiglie. Per quanto riguarda la forma si usano bottiglie tradizionali come la renana la bordolese, la borgognona, la sciampagnotta e così via: ogni bottiglia, inoltre, presenta una classica rientranza conica sul fondo che serve per tenere meglio le piccole quantità di «fondata» che vi si depositano. Il colore del vetro è di solito scuro, di un verde tipico, per evitare che la luce determini delle alterazioni nel prodotto e il vetro deve essere d'ottima qualità, inattaccabile dalle sostanze contenute nel vino.

PERCHÉ DALLA PALMA DA COCCO SI PUO' RICAVARE SIA IL LATTE CHE IL VINO?

Ma cosa non si può ricavare dalla Palma da cocco?
Questa pianta fornisce cibo e bevande, tetti per ripararsi, combustibile e così via. Chi capitasse in un'isoletta sperduta priva di qualsiasi altro tipo di vegetazioni all'infuori di una Palma da cocco, potrebbe ugualmente disporre di una discreta riserva di alimenti e di materia prima. Tanti naufraghi portati dalle onde su qualcuno degli sperduti atolli del Pacifico sono sopravvissuti soprattutto grazie alla Palma da cocco.
Questa palma ha un lungo tronco arcuato e foglie pennate, ossia divise in lobi stretti e fissati ad angolo retto sulla nervatura principale.
Il grosso frutto rotondo e setoloso contiene una cavità piena di liquido zuccherino e profumato: il latte di cocco. La polpa del frutto, se lasciata seccare al sole, assume il nome di «copra» e fornisce un'olio che viene in parte raffinato e serve come commestibile, ed è in parte destinato alla fabbricazione di saponi, burro vegetale etc. Dalle fibre che ricoprono il guscio si possono ricavare stuoie, corde e tessuti, anche se grossolani. Non staremo ad enumerare tutti i possibili impieghi della Palma da cocco: basti aggiungere che, oltre al latte, questa palma fornisce anche una bevanda niente affatto disprezzabile: il cosiddetto «vino di palma».
Per ottenerlo, bisogna praticare alcune incisioni all'estremità delle infiorescenze: dal fusto inciso sgorga la linfa. Essa consiste in un liquido zuccherino che, fermentato, dà un vino e, per distillazione, una specie di acquavite.

PERCHÉ UN TIPO D'INCHIOSTRO SI CHIAMA «DI CHINA»?

Tutti sanno che cos'è l'inchiostro: è una miscela, liquida e pastosa, usata per scrivere ed anche per stampare.
Esistono vari tipi d'inchiostro che si differenziano per la composizione ed il colore; le loro caratteristiche fondamentali devono essere la scorrevolezza, la stabilità all'azione della luce e degli agenti atmosferici; debbono inoltre penetrare nella carta senza spandere, non intaccare il pennino ed essere difficilmente asportabili.
L'inchiostro può essere nero e colorato. Quello nero, generalmente, è a base «ferro-ballica» e si ottiene aggiungendo alla soluzione acquosa degli acidi gallico e tannico una soluzione acquosa di solfato ferroso, reso acidulo dall'aggiunta di un acido minerale (cloridrico o solforico) od organico.
L'acidulazione è importante perché impedisce la formazione del sale in seguito all'unione del ferro con gli acidi gallico e tannico.
Solo quando l'inchiostro è steso sulla carta, l'acido libero viene neutralizzato dall'appretto della carta e il complesso ferro-gallico, a contatto con l'ossigeno dell'aria, assume stabilmente il colore nero.
Vi è anche un altro tipo di inchiostro, quello a base di estratto di campeggio, una sostanza di colore scuro che si estrae dal legno di un piccolo albero del Messico e dell'America Centrale: si ottiene aggiungendo all'estratto in soluzione acquosa un sale di cromo.
Quest'inchiostro scrive subito in nero ma si cancella più facilmente dell'inchiostro a base ferrogallica.
Per quanto riguarda gli inchiostri colorati, si ottengono, di solito, con coloranti sintetici in soluzione acquosa.
Un tipo speciale di inchiostro è quello così detto «di china» che si ottiene sospendendo il nerofumo (chimicamente costituito da carbone elementare quasi puro e prodotto dalla parziale combustione di sostanze organiche) in una soluzione acquosa di gomma lacca, di borace e di gelatina. È un inchiostro usato per disegnare, molto resistente all'acqua e intaccabile dalla scolorina e, in genere, da tutti i reagenti chimici. Perché si chiama inchiostro di china? Perché era noto in Cina (o China) già nel terzo millennio avanti Cristo: la sua invenzione è attribuita ad un certo T'ien Chù.

PERCHÉ L'INCHIOSTRO «SIMPATICO» NON SI VEDE?

L'inchiostro simpatico è uno speciale tipo di inchiostro che dà una scrittura che rimane invisibile finché non venga sottoposta a speciale trattamento.
La prima notizia intorno ad un inchiostro invisibile risale al terzo secolo avanti Cristo ma le sue reali origini sono oscure e forse la sua scoperta e la sua applicazione sono di molto anteriori, dal momento che,
con ogni probabilità, lo spionaggio era noto ed impiegato anche in epoche precedenti.
L'inchiostro simpatico, infatti, è un'arma segreta, che, sebbene oggi sia da considerare superata, soppiantata dai microfilm, un tempo conobbe senz'altro momenti di successo.
Come s'impiegava l'inchiostro simpatico? Semplice: si scriveva una lettera normale quindi, tra le righe, si trasmettevano con l'inchiostro simpatico le notizie segrete.
Se la lettera cadeva in mano del «nemico», questi la inoltrava ritenendola innocua.
Il destinatario, a conoscenza del trucco, sottoponeva la lettera al trattamento relativo al tipo dell'inchiostro e poteva così conoscerne il contenuto segreto ed invisibile.
Vi sono vari tipi di inchiostri simpatici; quello più antico era a base di un estratto, naturalmente incolore, di noci di Galla.
Inchiostri simpatici più recenti possono essere: una soluzione acquosa di cloruro cobaltoso che diventa visibile mediante riscaldamento, in seguito alla disidrataziane del sale di cobalto che diviene azzurro; la soluzione acquosa di acetato di piombo che, esposto a vapori di acido solfidrico si trasforma in solfuro nero e quindi visibile; la soluzione acquosa di solfato rameico che, sottoposto a vapori di ammoniaca, forma un sale di colore azzurro.
Oltre a questi tipi possiamo averne a disposizione di più semplici, come il succo di limone e l'acqua zuccherata. Per mettere in evidenza lo scritto basta esporre il foglio al calore provocando così la carbonizzazione della sostanza usata che appare sotto forma di traccia oscura.

PERCHÉ UN ANIMALE IMBALSAMATO SI CONSERVA?

Imbalsamare significa sottoporre una salma, sia essa d'uomo o d'animale, ad uno speciale trattamento atto a preservarla dalla decomposizione organica. Quest'operazione è nota fin dai tempi più antichi è comune a molti popoli che, in virtù delle loro credenze religiose, la compievano durante i riti funebri. I più illustri esempi, come voi senz'altro saprete, sono forniti dalle mummie egiziane: la pratica della mummificazione traeva origine dalla credenza che la preservazione del corpo fosse una garanzia per la vita futura e che servisse da sostegno allo spirito del morto.
Gli Egiziani dapprima utilizzarono sistemi rudimentali di imbalsamazione, impiegando salnitre, resine e bende con scarso successo. Successivamente l'arte andò perfezionandosi: il corpo cominciò ad essere privato dei visceri, lavato e imbalsamato; quindi veniva avvolto in bende di lino. La conservazione del cadavere era affidata oltre che alle sostanze balsamiche, anche alle favorevoli condizioni ambientali, di umidità e di ventilazione, proprie delle tombe.
Per quanto riguarda l'imbalsamazione degli animali, già a quel tempo si mummificavano gli animali sacri.
Oggi l'arte d'imbalsamare è ancora praticata, ma solo da pochi esperti artigiani, che ne conservano gelosamente la tradizione e il segreto.
I sistemi più semplici e maggiormente usati sono comunque le iniezioni di sublimato, di formalina o di arsenico.
Quest'arte, al servizio soprattutto dei musei di scienze naturali, è spesso sostituita dalla «tassidermia», che non può più essere considerata imbalsamazione. L'imbalsamazione, infatti, conserva l'animale pressoché nella sua totale completezza (a parte i visceri), mentre la tassidermia consiste nell'asportare tutto l'animale salvo la pelle: questa viene spalmata internamente con sostanze conservatrici come, ad esempio, il sapone arsenicale quindi montata su un'imbottitura di stoppa o di fieno o su un modello di legno, di sughero o di cartapesta retto da sostegni di ferro, che riproduce le forme dell'animale vivo.

PERCHÉ NELLE MINIERE SOVENTE AVVENGONO DELLE ESPLOSIONI?

Tra i molti pericoli che gli uomini incontrano lavorando in miniera ce n'è uno assai temibile che ha mietuto, assai più in passato che oggi, molte vittime: il grisou.
Il grisou, voce dialettale vallone dall'antico francese «gresois» (fuoco greco), è una miscela di metano, di altri idrocarburi e di quantità variabili di anidride carbonica, ossigeno e azoto, che si sviluppa in molte miniere di minerali metallici, di zolfo e soprattutto di carbone. Per questo il grisou è anche noto come «gas delle miniere».
La miscela, dunque, è estremamente infiammabile e nelle anguste gallerie sotterranee costituisce una vera e propria carica esplosiva.
Un tempo, quando ancora non erano state prese opportune misure di sicurezza, le fiaccole e le lampade a petrolio usate dai minatori provocavano l'esplosione del grisou, il crollo delle strutture e la morte dei minatori.
Oggi le esplosioni sono molto più rare, impiegando i minatori comunemente l'energia elettrica. Ma è interessante ricordare un dispositivo ancor oggi in uso, ideato dall'inglese Davy, per scongiurare l'esplosione del grisou. Ci riferiamo alla lampada di sicurezza, o lampada Davy. In questa lampada la fiamma è separata dal gas da una o più reticelle metalliche. I gas di combustione del lucignolo attraversano la reticella, che li raffredda ed impedisce alla fiamma di propagarsi all'esterno e di provocare l'incendio e l'esplosione del grisou.
Sezione di lampada Davy

PERCHÉ I SALDATORI PORTANO LA MASCHERA?

Parlando della fiamma ossidrica e della fiamma ossiacetilenica, abbiamo detto che la prima utilizza come combustibile l'idrogeno, la seconda l'acetilene. Abbiamo altresì detto che l'idrogeno bruciando con l'ossigeno, è in grado di sviluppare temperature di circa 2500 gradi, mentre l'acetilene, che è un idrocarburo, raggiunge i 3000 gradi. Con la fiamma ossiacetilenica si possono fondere o tagliare acciaio ed altri metalli. Ma una fiamma atta a portare ad incandescenza il metallo, fino al punto di potervi praticare delle incisioni, sprigiona un calore ed una luminosità tali da rendere necessarie particolari cautele da parte degli operai che la impiegano. Essi devono dunque ricorrere ad una sagoma di metallo, da applicarsi al viso a mo' di maschera. Una maschera munita di una feritoria protetta da vetro colorato, comune o speciale, o da lastre di materia plastica trasparente.
È così possibile proteggersi il viso e, in particolare, gli occhi dalle scintille e dalla luce abbagliante dei metalli incandescenti.

PERCHÉ LE POLVERI DA TAVOLA RENDONO L'ACQUA EFFERVESCENTE?

Quando in un liquido si nota uno sviluppo rapido di bollicine di gas, diciamo che il liquido è effervescente. Le bollicine di gas possono essere dovute ad una reazione chimica o a diminuzione della solubilità del gas disciolto nel liquido per abbassamento della pressione. Non è effervescente, però, l'acqua in ebollizione, ché le bollicine sono prodotte da vapore acqueo, cioè dall'evaporazione del liquido grazie al calore.
Acque minerali e bevande gassate vengono preparate, quando il gas non vi è sciolto naturalmente, mediante il metodo sopra accennato dell'aumento della solubilità del gas, ponendo il liquido sotto pressione. Ma esiste un sistema, poco costoso e «casalingo», di rendere effervescente la comune acqua potabile.
Se una famiglia non vuol spendere troppo per acquistare acqua minerale o altre bevande gassate, e non desidera tuttavia rinunciare al piacere di gustare un po' d'acqua frizzante, può acquistare le cosiddette «polveri effervescenti» e con esse gassare l'acqua.
Lo sviluppo del gas è in questo caso dovuto ad una reazione chimica, che avviene al contatto di due polveri con l'acqua. Di solito delle due polveri una è a base di bicarbonato di sodio e l'altra è costituita da una sostanza a carattere acido (acido citrico, o tartarico, fosfato acido, ecc.). Le due polveri sono contenute in bustine separate e possono essere mescolate solo allo stato secco.
Una volta venute in contatto tra loro nell'acqua, dal loro incontro si sviluppa una certa quantità di anidride carbonica, che si scioglie nell'acqua, a condizione che il recipiente contenente il liquido sia ermeticamente chiuso. Solo così, infatti, il gas non può fuoriuscire e finisce per esercitare sul liquido una pressione sempre crescente.
Grazie a questa pressione il gas può disciogliersi nell'acqua e, finita la reazione, aprendo noi la bottiglia (abbassando quindi repentinamente la pressione) facciamo in modo che parte del gas si liberi sotto forma di bollicine, le quali rendono l'acqua effervescente e gradevole al palato.

PERCHÉ I «MANGIATORI DI FUOCO» NON SI BRUCIANO?

Parlando dei fachiri, abbiamo accennato all'impiego della disciplina «yoga» ai fini spettacolari.
Qualche anno fa, più frequentemente di quanto succede oggi, si poteva assistere, sulle piazze, ad interessanti spettacoli offerti da saltimbanchi che dimostravano capacità non certo comuni, come ingoiare spade, trafiggersi con lunghi spilli, liberarsi dalla ferrea morsa di una catena, farsi gravare da grossi pesi, adagiarsi impunemente su un letto di chiodi... e «mangiare» il fuoco
Quest'ultima esibizione ha sempre destato, nella platea, moti di meraviglia e di paura, soprattutto nel momento in cui l'uomo, spruzzando con la bocca su di una fiammella un getto di benzina, provoca una nube di fuoco lunga quanto il getto stesso, che divampa e subito scompare.
L'effetto è, sì, grande, ma l'esibizione non presenta eccezionali difficoltà. L'uomo si riempie la bocca di petrolio o benzina, si pone ad una certa distanza dalla bocca la fiaccola e quindi, spruzzando con forza, nebulizza (alla maniera di uno «spray») il combustibile che, a contatto con la fiamma, si incendia.
Maggiore pericolo corre il saltimbanco quando si dispone a «mangiare» il fuoco, a passarsi la fiamma sulla lingua, a spegnerla addirittura, imprigionandola nella bocca.
Ma bastano attenzione ed allenamento, per non subire scottature. Per spiegare il fenomeno basterà ricordare la descrizione, che abbiamo fatto in precedenza, della fiamma. Noi, infatti, sappiamo che esiste una zona, nella fiamma, in cui lo sviluppo delle calorie non è eccessivo. Ebbene l'uomo disporrà la fiaccola in modo da non venire in contatto con la fiamma viva, e ciò l'ottiene appoggiando sulla carne la parte inferiore della fiaccola e lasciando che la fiamma si libri normalmente verso l'alto.
A ciò si aggiunga la particolare esperienza, l'allenamento e l'abbondante salivazione: la saliva, infatti, costituisce un ottimo strato isolante, che protegge la pelle viva dalle scottature e, se vi facciamo attenzione, l'esercizio ha sempre una durata inferiore al tempo d'evaporazione dello strato protettivo di saliva.

PERCHÉ PER TAGLIARE IL MARMO SI USA UN SEMPLICE FILO D'ACCIAIO?

A prima vista, il fatto che un semplice filo d'acciaio possa tagliare a fette una montagna di marmo può lasciarci molto stupefatti.
Ma se, entrando in un negozio di generi alimentari, vediamo il pizzicagnolo che taglia a fette una grossa forma di formaggio stagionato e indurito usando lo stesso sistema, la cosa comincia a sorprenderci di meno.
In tutti e due i casi l'uomo sfrutta un principio fisico: l'abrasione da parte di una superficie particolarmente limitata e resistente nei confronti di un'altra sostanza di dimensioni maggiori.
È lo stesso principio che permette al coltello di tagliare e al chiodo di penetrare, grazie alla forza che si concentra sul filo della lama e sulla punta accuminata del chiodo.
Interessante è vedere come si realizza l'azione tagliente del filo in una cava di marmo.
Per tagliare il marmo si usa un «filo elicoidale», una sottile fune d'acciaio composta di tre fili di due o tre millimetri di diametro avvolti ad elica, montato in circuito chiuso in un sistema di pulegge. Il filo è messo in rotazione da una ruota motrice e tenuto in tensione da un carrello a contrappeso.
Nei tratti in cui deve tagliare, è tenuto in pressione contro la roccia da opportuni volanetti di guida, posti lungo colonne metalliche sistemate in trincee scavate all'uopo in precedenza.
Per facilitare l'azione abrasiva del filo elicoidale si usano sabbie quarzose per le rocce tenere e graniglia d'acciaio per le rocce più dure, irrorando costantemente il taglio con getti d'acqua allo scopo sia di limitare la produzione di polvere, sia il surriscaldarsi del filo.